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Antonio
Dal Masetto
L'intervista - I
Ottobre del 2000, una sera calda e umida nella stanzetta soffocante di una pensioncina dalle parti del Congreso, a Buenos Aires. Uno squillo di telefono e poi la voce: “Sono Antonio Dal Masetto...” che mi dava un appuntamento. E subito la stanchezza se n'andava. Perché io Dal Masetto l'avevo cercato, anche senza farmi troppe illusioni su una sua possibile risposta, lasciandogli semplicemente un messaggio nella posta elettronica. Il giorno dopo avvenne il nostro primo incontro alla Recoleta, al Café La Biela, sotto il maestoso gomero che copre quell'angolo di Piazza.
Anche lui era curioso di conoscere una scrittrice che viveva dall'altra parte del mondo, proprio nel luogo dove era nato. Perché Antonio Dal Masetto, uno dei più famosi scrittori argentini, è di origine italiana: nato nel 1938 a Intra, sull'alto Lago Maggiore, e partito dall'Italia, con la sua famiglia, nel 1950. Io l'ho conosciuto proprio tramite un suo libro, Oscuramente fuerte es la vida (1990, in Italia uscito quasi clandestinamente da Omicron nel 1995), che racconta un viaggio nel passato attraverso la memoria di sua madre. Il romanzo, infatti, non è soltanto la storia di Agata e della sua decisione di seguire il marito in l'Argentina, ma è anche, per Antonio Dal Masetto, la storia di un'appartenenza: «I miei erano di lì... Fin dove so, fin dove sapevano quelli che mi hanno allevato e educato, nessuno di quelli che vennero prima di me era arrivato da altre regioni.» Una di quelle storie di cui, raccontandole, ci si sgrava, come di un dolore, perché lasciare la propria terra è una ferita sempre aperta: «Per me, ogni volta di più, è come se tutto fosse successo ieri.»
In Argentina, dopo un'adolescenza passata a Salto, un piccolo paesino dell'interno, gli nasce la voglia di affrontare da solo la grande città. Qualcosa della vicenda di Demasiado cerca desaparece (1997) rispecchia questa scelta. Ciro, il protagonista quattordicenne, scappa dal suo buco di provincia per conoscere il mondo che è poi l'immensa capitale Buenos Aires. Attraverso una galleria di insoliti incontri - Gallo, il camionista che odia gli automobilisti e cerca di farli fuori, uno dopo l'altro; i due fratelli grassi, Anselmo e Arnoldo, innamorati di una stessa donna; l'ossuto pittore Bonfanti che tiene appeso alla sua porta il cartello: Nessuno è benvenuto...- si sviluppa la ricerca di una ragazza, Bea, appena intravista e ricostruita da Ciro tramite bozzetti a matita.
Quella del disegno è effettivamente una passione reale di Antonio Dal Masetto. Si era iscritto, appena arrivato a Buenos Aires, a una scuola di disegno: in un certo senso era un sogno che si portava dientro dall'infanzia. “Ricordo, da piccolo, una scatola di pastelli su cui era disegnata la figura di un piccolo pastorello disegnando con un pezzo di carbone uno zero perfetto sopra una roccia. Pastelli Giotto, si chiamavano” racconta. “E un po' mi immedesimavo con quell'immagine: sarà stato per le pecore, per il fatto che Giotto era un piccolo montagnino come me... Fatto sta che a scuola una delle suore, sorpresa dalle mie attitudini, mi aveva messo come soprannome Giottino.”
Mi dice che leggeva molto, a quel tempo: ogni libro una sorpresa, come se tutto sembrasse scritto proprio per lui. Parliamo del 1960. “Avevo messo su una rivistina, mi interessavo di letteratura e andai a fare un'intervista a Witold Gombrowicz che a quei tempi viveva qui a Buenos Aires.” Me lo immagino a 22 anni, nella stanzuccia della pensione di calle Venezuela dove lo scrittore polacco viveva: gli fece un'enorme impressione l'atto con cui Gombrowicz, che viveva in una povertà estrema, da un baule di legno tirò fuori e si mise a sciorinargli davanti agli occhi i libri tradotti in varie lingue. “Era la prima volta che mi trovavo a tu per tu con un vero scrittore.”
Disegno e letteratura. Per il resto? I lavori più vari. «Vendevo, cercavo di vendere, frullatori, lucidatrici, macchine da cucire, aspirapolvere, frigoriferi, quadri, broches, sapone. Percorsi il Gran Buenos Aires; mi amareggiai. A mezzogiorno spartivo un sandwich con Horacio, uno che lavorava con me. Ci mettevamo a sedere al lato della via, mangiavamo guardando passare i treni. Quando guadagnavo un po' di soldi, facevo sempre lo stesso. Per prima cosa percorrevo Corrientes e sui banchetti dei saldi sceglievo un libro che non costasse molto. Poi mi sedevo in un bar, ordinavo uno speciale di prosciutto e formaggio e mi facevo lustrare le scarpe. Erano i miei lussi di una volta al mese», così dice il protagonista del suo primo romanzo Siete de oro . Quasi impossibile non identificarlo con un Dal Masetto ventenne, anche perché sulla copertina sta proprio una sua foto giovanile, come doveva essere quando decise il viaggio di cui il romanzo parla: verso il sud, a Bariloche, con la furia giovanile di cambiare tutto e la vaga aspettativa che tutto stesse per cambiare. Nella ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi, di cui dire: è mio. «Perdere tutto per arrivare a possedere tutto. In questo parevano riassumersi le basi di una dottrina che mi ero inventato, con cui tentavo di giustificarmi...» Una sorta di “ritratto dell'artista da giovane”, circondato da personaggi satireggiati con leggerezza, ma perfettamente riconoscibili. Perciò un giornale di Bariloche, quando il romanzo uscì nel ‘69, alimentò a lungo una rubrica basata sull'identificazione dei protagonisti di Siete de oro . |
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